Il mobbing si riferisce ad una serie di comportamenti posti in essere con l’obiettivo di penalizzare, emarginare oppure colpire una persona nel luogo di lavoro. Si tratta di un concetto che è stato per molto tempo abusato ed utilizzato in maniera impropria. Di seguito un breve (ed equidistante) punto della situazione.
Il termine mobbing si riferisce ad una serie di comportamenti aggressivi e persecutori che vengono impiegati sul posto di lavoro per colpire la persona che ne è vittima. Il termine deriva dall’anglosassone ‘to mob’ (che significa assalire e attaccare) ed è entrato da tempo nel linguaggio comune non solo nel mondo legale, ma anche nel linguaggio comune.
Inizialmente sono stati sociologi e psicologi a descrivere e studiare il mobbing, ma successivamente il fenomeno ha acquisito importanza anche nelle aule di tribunale, dopo essere stato descritto e dibattuto nell’ambito di specifiche controversie.
Secondo la giurisprudenza, il termine mobbing è stato definito come una serie di atti o comportamenti molesti posti in essere contro un dipendente nel corso del tempo. Benché manchi una normativa specifica che lo definisca, si tratta ormai pacificamente di una serie di molestie messe in atto per un periodo di tempo (di solito almeno 6 mesi) dai membri dell’ufficio o dell’unità produttiva in cui il dipendente è addetto. Questo tipo di persecuzione ed emarginazione ha l’obiettivo primario di allontanare la vittima dal gruppo, spesso con l’intento di indurla all’abbandono del posto di lavoro.
Sono svariate le condotte capaci di integrare mobbing e quasi mai rilevano singolarmente. : Si va dall’isolamento all’interno del luogo di lavoro, all’assegnazione di postazioni oppure di condizioni di lavoro particolarmente scomode o penalizzanti, all’esclusione immotivata da riunioni, incontri, progetti, comunicazioni ed altre attività di gruppo. Si può trattare altresì di battute, pettegolezzi, insulti e comportamenti ostili, così come vere e proprie campagne diffamatorie; oppure mansioni inferiori rispetto a quelle ricoperte oppure dequalificanti, o ancora, all’opposto, trovarsi a dover gestire da solo carichi di lavoro intollerabili; intense ed assillanti forme di controllo; privazione di determinati benefit aziendali, oppure permessi, ferie ed altre richieste; sino a violenze sul piano fisico o di aggressioni alla sfera sessuale.
Risulta evidente dai numerosi esempi sopra riportati che il concetto di mobbing ricomprende comportamenti illeciti (a volte anche sanzionabili penalmente), cosiccome atti di per sé leciti che costituiscono espressione dell’ordinaria potestà del datore di lavoro di dirigere, controllare disciplinare i propri dipendenti. Ebbene, la nozione di mobbing comprende entrambe le condotte.
Le ragioni per accomunare tali condotte, attribuendole ad un generale senso di illegalità, risiedono nell’intento vessatorio che anima l’autore (detto anche “mobber”) e nella sistematicità delle sue azioni, che si compiono in un arco di tempo, in modo mirato e prolungato per colpire una persona sgradita, temuta o non più considerata preziosa. Le ragioni del fenomeno possono essere diverse, sfaccettate e variano da caso a caso in maniera analoga ad altre forme di aggressione.
mobbing verticale e mobbing orizzontale
In base ai soggetti coinvolti e alla gerarchia aziendale, è possibile individuare le differenti tipologie di mobbing:
Nel Mobbing verticale, la condotta persecutoria coinvolge persone di rango diverso, dovendo poi ulteriormente distinguere: Mobbing discendente, quando i comportamenti aggressivi e vessatori sono posti in essere dal capo o da un subalterno della vittima di mobbing; Mobbing ascendente, quando viceversa è il lavoratore di un subordinato che attacca un superiore;
Gli elementi costitutivi
Possono essere elementi costitutivi del mobbing: una serie di atti di natura persecutoria illegali o legali, a seconda dei casi diretti contro un dipendente dal datore di lavoro, dal suo superiore o da collaboratori; eventi lesivi della salute, della personalità o della dignità del lavoratore; legami o fili conduttori tra tutte le azioni persecutorie e il danno psicologico subito; l’intento Persecutorio, che unisce e collega tutti gli atti separati.
La dimostrazione del mobbing.
Il dipendente che ritiene di essere vittima di mobbing è tenuto a dimostrare l’esistenza di ciascuno dei singoli elementi costitutivi del fenomeno. Tra questi la sequenza di atti aggressivi, discriminatori e molesti subiti nel tempo, i danni subiti a causa di tali azioni, nonché il nesso di causalità tra la condotta contestata e i pregiudizi subiti.
Il lavoratore vittima di mobbing deve dimostrare che gli atti compiuti a suo danno fuoriescono dall’ordinario potere di organizzazione e controllo delle attività riconosciute al datore di lavoro e che non si limitano a semplici e onnicomprensivi incidenti tipici di un normale rapporto di lavoro. Bensì, si tratta una vera e propria strategia persecutoria finalizzata a porre il soggetto che ne è bersaglio in uno stato di grave e profondo disagio.
La prova di tutti gli elementi necessari può essere fornita in due modalità: in forma documentale (allegando, ad esempio, un certificato medico attestante le patologie denunciate dalla vittima a seguito di mobbing), o in forma testimoniale (contattando colleghi o altre persone che potrebbero aver assistito agli episodi vessatori).
L’esistenza di talune tipologie di danni (in particolare danni non patrimoniali, quali il danno morale e il danno esistenziale) può essere presuntivamente rilevata dal giudice anche una volta acquisita la prova della condotta vessatoria.
I danni risarcibili
Nei casi in cui un lavoratore subisce mobbing, lo stesso ha il diritto di chiedere il risarcimento del danno subito. Le modalità attraverso le quali il danneggiato può ottenere un risarcimento in giudizio sono molteplici: le condotte di mobbing sono potenzialmente in grado di creare profili di responsabilità contrattuale o extracontrattuale, e con un vasta gamma di differenze disciplinari.
Responsabilità contrattuale sorge quando una parte afferma che un’obbligazione pre-esistente è stata violata. La fonte normativa in tal caso è data dall’art. 2087 del codice civile.
Affinché il datore di lavoro possa tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei propri dipendenti, l’imprenditore, e più in generale il datore di lavoro, deve adottare tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità del loro corpo fisico e della loro personalità morale.
Pertanto è inadempiente rispetto all’art. 2087 c.c. il datore di lavoro che in prima persona ponga in essere atti vessatori nei confronti di un dipendente, proprio come il datore di lavoro che non abbia adeguatamente vigilato, prevenuto ed eventualmente impedito condotte mobbizzanti poste in essere da suoi sottoposti nei riguardi di un altro dipendente.
Il lavoratore che ha subito abusi da parte del proprio datore di lavoro è tenuto ad indicare e provare che le molestie hanno reso l’ambiente di lavoro “dannoso”. Inoltre, deve essere fornita la prova del danno subito e del nesso di causalità tra tale danno e il comportamento di mobbing.
Per poter essere ritenuto esente da responsabilità, il datore di lavoro è tenuto invece – secondo quanto prescritto dall’art. 1218 c.c. – a dimostrare di aver tutelato la salute psicofisica del lavoratore oppure di non esservi riuscito per cause a lui non imputabili.
Uno degli elementi costitutivi del mobbing è proprio l’intenzionalità del mobber.
Sennonché, la giurisprudenza, nell’ottica di non aggravare eccessivamente l’onere probatorio del lavoratore vittima di mobbing, ha chiarito che può anche bastare la prova dell’idoneità persecutoria della condotta complessivamente posta in essere, rilevabile, anche in via presuntiva, dalle caratteristiche oggettive della stessa, quali la monodirezionalità, la pretestuosità e la permanenza nel tempo dei comportamenti vessatori.
Data la varietà delle forme che concretamente possono assumere le condotte vessatorie, gli effetti negativi – e quindi danni – che possono prodursi sul lavoratore vittima sono molteplici e diversificati in ragione del fatto che le condotte vessatorie possono assumere molteplici e variegate forme: l’entità del danno può variare a seconda delle circostanze delle condotte di mobbing e interessare sia gli aspetti patrimoniali sia quelli non patrimoniali dell’individuo.
Sotto il profilo patrimoniale, ad esempio, il risarcimento può avere ad oggetto le spese sostenute a causa della condotta vessatoria subita dalla vittima (ad esempio, spese mediche o farmaceutiche sostenute a titolo conseguenza di lesioni psicofisiche causate da un episodio di mobbing). Inoltre, il lavoratore potrebbe avere diritto al mancato guadagno, vale a dire quanto avrebbe potuto percepire se non gli fossero state assegnate illecitamente mansioni inferiori o se non gli fossero state negate ingiustamente avanzamenti di carriera e opportunità professionali.
Richiamando poi le ulteriori categorie usate dalla giurisprudenza per descrivere cosa debba ricomprendersi nell’area del danno non patrimoniale e tralasciando il complesso dibattito giuridico al riguardo, potranno infine essere oggetto di risarcimento il danno biologico (cioè quello derivante da patologie fisiche o psichiche riportate dal lavoratore, clinicamente accertate), il danno morale (consistente nella sofferenza e nel dolore patiti dal danneggiato) e il danno esistenziale (derivante dallo sconvolgimento delle abitudini di vita, delle relazioni e delle altre attività umane nell’ambito delle quali la persona trova la propria più completa realizzazione). Chiaramente ciascuno di essi dovrà essere dimostrato, proprio come il nesso di causalità con la condotta mobbizzante.
Insomma, considerati gli articolati adempimenti probatori relativi 1) alle condotte vessatorie; 2) ai danni lamentati, 3) al nesso di causalità tra le vessazioni e i danni, prima di dare inizio a qualsiasi iniziativa giudiziale occorre effettuare una disamina estremamente analitica dell’intera situazione di fatto.